I cittadini dell'UE hanno il diritto di vivere e lavorare in un paese europeo diverso dal proprio. Questo diritto fondamentale va a vantaggio non soltanto dei singoli lavoratori, ma anche, grazie alle competenze che portano con sé, delle economie dei paesi in cui decidono di trasferirsi.
I cittadini dell'UE che lavorano in un altro paese europeo dovrebbero, in teoria, essere trattati come i cittadini locali per quanto riguarda l'accesso ai posti disponibili, le condizioni di lavoro, la previdenza sociale e l'imposizione fiscale. Ma, in pratica, molti dei 10,7 milioni di lavoratori migranti dell'UE subiscono una serie di pratiche discriminatorie. Ad esempio, le amministrazioni o le imprese possono fissare norme discriminatorie per le assunzioni, oppure quote o requisiti di nazionalità per mansioni specifiche. Anche le norme in materia di retribuzione o prospettive di carriera potrebbero essere diverse da quelle previste per i cittadini nazionali. L'esperienza e le qualifiche professionali potrebbero non essere riconosciute allo stesso modo o affatto. Questi ostacoli tendono a scoraggiare un numero crescente di persone dall'andare a vivere e lavorare in un altro paese dell'UE. Per rimediare alla situazione, la Commissione ha proposto alcune misure per agevolare l'esercizio dei diritti dei lavoratori dell'UE - in vigore già da una cinquantina d'anni e sanciti dai trattati e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'UE. I paesi dell'UE sarebbero tenuti a:
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