Se per vivere si ritorna al Sud

Immagine associata al documento: Se per vivere si ritorna al Sud Una ricerca Svimez conferma la partenza di migliaia di giovani dal Meridione verso il Settentrione o verso l'estero in cerca di lavoro. Sono molti, però, quelli che scelgono di tornare a casa

Secondo il rapporto 2012 della Svimez (l'Associazione per lo sviluppo dell'impresa nel Mezzogiorno), nel 2011 i giovani che hanno lasciato il Sud sono stati quasi 60 mila. Destinazione: non solo le aziende e le università del Centro-Nord - scelte da oltre il sessanta per cento degli studenti meridionali -, ma anche l'estero: sono stati 10.800 infatti a varcare i confini nazionali. A questi si aggiungono circa 140 mila "pendolari di lungo raggio" che, pur non spostando formalmente la residenza, lavorano fuori dalle regioni di origine.

Eppure, complice la crisi, la tendenza si sta invertendo. Sempre la Svimez registra un calo del 22,7 per cento tra il 2008 e il 2010 (40 mila in valori assoluti) nel numero di pendolari, nonché un trasferimento da Nord a Sud di circa 67 mila persone l'anno che si è mantenuto costante anche nell'ultimo periodo. Per quanto minoritaria rispetto a chi se ne va (circa 109 mila persone l'anno), si tratta di una componente significativa. E significative sono soprattutto le motivazioni che portano a questa decisione: non solo un lavoro precario o che non c'è - il Corriere della Sera ha calcolato che il flusso di denaro Sud-Nord per mantenere i figli arrivi a 10 milioni di euro l'anno -, ma anche condizioni di vita che non si è più disposti ad accettare. Una decrescita (in)felice, diventata una scelta più o meno obbligata per diversi giovani.

Emanuela, biotecnologa di Potenza, dopo la laurea a Roma lavorava nel laboratorio in cui aveva fatto la tesi, ma senza compenso: così, non potendo continuare a pesare economicamente sui genitori, ha seguito il fidanzato - potentino anche lui - a Torino. Dopo mesi di altro lavoro gratis, finalmente una borsa di studio per un ente di ricerca: «Avevo trovato un impiego, ma perso la mia vita - racconta -: trascorrevo 10-12 ore al giorno chiusa in laboratorio, in condizioni di altissimo stress».
Per quanto si ritenesse fortunata ad essere anche solo precaria, quando lui ha avuto una proposta di lavoro a Potenza è sorto il dubbio amletico: rimanere a Torino con due lavori, ma sacrificando la propria vita, o rientrare a casa con un solo lavoro, ma potendo contare sul sostegno della famiglia e condizioni più umane? I due hanno fatto le valigie, e la ricerca di un impiego per Emanuela è ancora in corso: «Mi scontro con la disoccupazione, con i favoritismi. Per ora faccio un corso di formazione e il servizio civile. Sono consapevole che non potrò raggiungere grandi obiettivi professionali, ma sono felice di aver ripreso in mano la mia vita e di poter pensare a costruire una famiglia».

Le condizioni di lavoro che non consentono di occuparsi dei figli sono infatti uno degli ostacoli più comuni: Anna e Fabio, pugliesi trasferitisi nella capitale e sposati da un anno e mezzo, stanno seriamente pensando di dire basta a impieghi precari e mesi in cui lo stipendio salta. «Vorremmo avere bambini - confida lei -, ma così non potremmo né mantenerli né occuparci di loro. In Puglia avremmo quantomeno l'aiuto delle famiglie, e ritmi di vita più sostenibili». E il fatto che la Svimez parli di vera e propria «segregazione occupazionale» delle donne meridionali, tanto che due su tre sono classificate come inattive (ossia non cercano nemmeno un lavoro, per scoraggiamento nell'ottanta per cento dei casi), non la intimorisce. [...]

Da "CittàNuova.it" del 28 settembre 2012

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Data Pubblicazione sul portale: 28 Settembre 2012
Fonte: CittàNuova.it
Aree Tematiche: Sistema Puglia, Rassegna Stampa
Redazione: Redazione Sistema Puglia
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